Una vita nell'arte: il maestro Domenico Rea.
“Una vita nell’arte”
Il maestro Domenico Rea si racconta: in una breve intervista ripercorriamo assieme a lui le tappe fondamentali del suo pregevole cammino artistico.
Domenico Rea è uno dei personaggi più importanti di Sant'Anastasia, ma ciò che lo contraddistingue è la sua spontanea umiltà. E si stupisce quasi che il suo nome compaia su Wikipedia, lui, che ammette di non avere molta dimestichezza con Internet. Partiamo dalla sua arte, dal suo itinerario professionale e passionale durato più di mezzo secolo: è stato un paesaggista pluripremiato e un professore di pittura apprezzatissimo, ha dato nuove forme all’astrattismo e nuovi significati al simbolismo.
Maestro, partiamo dall’inizio o meglio dalla fine: cosa sono i frammenti?
I frammenti sono l’approdo del mio cammino artistico. Sono la fine ed il principio. Ad una persona che mi domandò, una volta, quanto tempo avessi impiegato per realizzare un quadro simile, io risposi 55 anni. C’è tutta la mia esperienza, tutta la mia vita dietro ai frammenti. In effetti l’astrattismo è la mia completa evoluzione: ho cercato di dare un nuovo volto al genere e mi pongo assolutamente agli antipodi di chi senza una scuola o senza una formazione tende forzatamente a ridurre l’astrattismo alla mera imitazione di Picasso. Un autodidatta senza professionalità non può ridurre l’astrattismo a tutto ciò. I miei frammenti sono denuncia, innanzitutto.
Prima di arrivare all’astrattismo, come definiva la sua arte?
Tutto nasce dall’influsso che ha avuto verso di me, l’arte del mio maestro Vincenzo Ciardo. Lui fu un grandissimo paesaggista, ed io prendendo spunto dal suo talento ho iniziato con i paesaggi. Il mondo che io rappresentavo era un mondo umile. I miei paesaggi erano poetici ma soprattutto vissuti. Non cercavo di rappresentare bellezze paradisiache, piuttosto preferivo disegnare un cantiere, uno squarcio incontaminato, fuggivo la presenza umana. Più che paesaggismo, la mia fu “ecologia figurativa”. Fu proprio con un paesaggio che vinsi il 1° premio dell’Accademia delle Belle Arti di Napoli nel 1959. Carlo Barbieri, un importante critico d’arte, scrisse una bellissima critica sul mio paesaggismo e sul distacco che stavo maturando dall’influsso di Ciardo, creando una connotazione personale alla mia arte.
Altra fase importante del suo cammino artistico fu il simbolismo. Quanto è stata importante per lei?
Sono molto legato a questa fase. Per me il simbolismo ha rappresentato soprattutto impegno sociale. Dietro al nudismo femminile si celava in realtà una forte denuncia per l’emancipazione femminile: nella “Femminista” la donna si spogliava di tutti i tabù. Altrettanto importante è stato l’episodio del rapimento di Aldo Moro. In quel caso il mio simbolismo ha avuto un “retrogusto” politico. Cercai nel “Martirio” di rappresentare il presidente DC come il Cristo. Al centro della raffigurazione, un libro era l’immagine della cultura. Nella “Pietà” invece cercai di dare alla celebre raffigurazione cristiana un forte senso d’attualità: il figlio perduto tra i mali della realtà del tempo, come ad esempio la droga, viene sorretto in lacrime da una madre sconfitta.
Intervista pubblicata su "Spazio Culturale", Aprile - Giugno 2012.
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