Tommaso Campanella, il genio e la follia: un domenicano tra magismo ed utopia.
“E quanto intendo più,
[1] Tommaso
Campanella, Anima Immortale, poesia tratta da Scelta d’alcune poesie filosofiche di
Settimontano Squilla
“Son di una terra
chiamata Stilo in Calabria ultra,
mio padre si domanda Geronimo Campanella e mia madre Caterina Basile”: fu lui
stesso a dare notizia delle sue umili origini nel mentre si trovava, suo
malgrado, nelle carceri di Castel Nuovo a Napoli (1599), reo di aver progettato
nella sua terra natia l’ambizioso progetto di una repubblica ideale, cui
abbiamo avuto modo di interpretarne alcuni lineamenti reconditi ne “La Città del Sole”, capolavoro “utopico”
della sua visione sociale e teocratica.
Per la vasta eco di cui ha goduto la
sua più celebre opera, in seguito si è parlato, ingiustamente, di un Campanella
precursore del pensiero comunista:
in realtà nella scala sociale della paradisiaca isola campanelliana
non v’era un sistema egualitario ed ogni cittadino occupava il grado che
corrispondeva alle sue capacità e alle sue qualità naturali. Ma Giovan Domenico, questo il suo vero
nome, subì nella sua vita ben cinque processi: elencarli tutti, diverrebbe
schematico ed un po’ aristotelico, il che non gli farebbe sicuramente piacere. Ma
non si può non negare che la sua condotta nell’Ordine di San Domenico fu rosea
e diligente: già a San Domenico Maggiore in Napoli mostrò i primi sintomi
dell’incongruenza con i dogmi consuetudinari dell’Ordine, preferendo Telesio alle linee guida
dell’aristotelismo ed del tomismo. Risale a quei tempi la pubblicazione della “Philosophia
sensibus demonstrata” (1589), che
gli provocò non pochi problemi, seppur non si fosse spinto ancora in quel
vortice definito eretico, che lo accompagnerà per tutta la sua esistenza. Ed è
probabile che risalgano a quel tempo, anche le tante poesie che confluiranno in
una delle più belle opere, a mio parere, del Campanella: “Scelte di alcune
poesie filosofiche di Settimontano Squilla”. Il grande storico di
Campanella, Luigi Firpo, a riguardo, ebbe a dire: “Non meno di 42 preziose emendazioni
autografe, testimoni di una cura amorosa, dall'aggiunta d'un accento a versi
rifatti di sana pianta. Questo
commovente documento del genio e del patimento di un grande poeta è stato di
recente sconciato con incoscienza colpevole in occasione di un sedicente restauro”[1]. Il rifiuto dell’ortodossia domenicana ed il
suo avvicinamento al Galilei, causarono la diffidenza nei suoi confronti da
parte del Sant’Uffizio e dopo un altro processo, nel 1595 fu costretto, per la
prima volta, ad abiurare in Santa Maria sopra Minerva. In questo senso si
spiega il suo avvicinamento al magismo,
con una propensione spiccata per l’astrologia che sarebbe dovuta giungere a
quella metafisica teologica finale, frutto dei suoi studi e della sua “utopia” politica e religiosa. La
scrittrice stilese Ylenia Fiorenza, nel suo libro, “Quel folle d’un saggio”,
passa in rassegna l’attualità della sua dimensione e del suo pensiero, che
si esprime anche nella sua produzione poetica: cultore di una filosofia
mistica, il domenicano viene definito un “saggio folle”, acerrimo nemico di tirannide,
sofismi e ipocrisia[2]. La sua produzione, nonostante i processi
che continuava a subire, in realtà non scemò mai: in quegli anni scrisse il “De
Monarchia”, il “Dialogo contro Luterani” ed i “Discorsi ai
Principi d’Italia”. Ma fu proprio in carcere, in quei ventisette lunghi
anni, che diede alla luce i suoi capolavori più significativi: “Quod
reminiscetur”, “Metaphysica”, “Theologia”, “La Città del Sole”(1602) ed “Apologia
di Galileo” (1616), in difesa dell’amico scienziato. Subì
innumerevoli torture aggiunte ad ore ed ore di processi ed interrogatori. Il
suo pensiero filosofico e letterario, fu infatti, contraddistinto da continue
modifiche, da capovolgimenti ideali, da quel “dico e non dico”, che in realtà
metterà in dubbio persino la sua paternità di alcuni passi e renderà più
intricato e meno lineare il suo percorso letterario: muoversi tra i suoi
scritti, in realtà, non è sempre facile e questo è plausibilmente additabile al
suo continuo difendersi dalle condanne inquisitorie. La sua vita è stato un
eterno “fuggire” agli altri e talvolta da sé stesso: a volte si è arreso con abiura e pentimenti addirittura
facendosi passare per pazzo oltre che relapso[3], altre volte invece, non si è piegato ed ha
lasciato giudicare alla storia la fondatezza delle condanne rivoltegli. Del fuggire, di cui prima parlavo, si trova
concretezza nei suoi ultimi giorni di vita: dopo essere stato scarcerato,
riparò in Francia, protetto dal cardinale Richelieu alla corte di Luigi XIII ed
a suo figlio, futuro re, dedicò l’ultima sua opera, “Ecloga in portentosam
Delphini nativitatem”.
[1] Luigi Firpo, Postfazione
di Tommaso Campanella, Scelta
d’alcune poesie filosofiche di Settimontano Squilla cavata da’ suo’ libri detti
la «Cantica», Napoli, Bibliopolis, 1980.
[2] Ylenia Fiorenza, Quel folle d’un saggio, Tommaso Campanella –
L’impeto di un filosofo, Bologna, Città del Sole, 2009.
[3] Relapso:
nel
medioevo, chi ricadeva nell’eresia o nel peccato, abbracciando dottrine
considerate eretiche dopo averle abiurate. Come sost., persona tornata al
paganesimo, o chi nel periodo medievale ricadeva nell’eresia. Treccani.
Commenti
Posta un commento