Quanto ci sarebbe servita ancora quella penna, e quella Mehari
Il 23 settembre 1985 colpito dai proiettili di due
miseri sicari moriva all’età di 26 anni il giornalista vomerese Giancarlo
Siani. Intendo ricordarlo, con l’onore di tracciare in sua memoria qualche
parola di assenso e di dissenso, di coraggio e di paura, di pregio e di
vergogna. Giancarlo è uno dei più recenti esempi di giornalismo sociale, quello
utile, quello formativo. Nessun articolo fine a se stesso: la sua parola
fervida e leggermente pungente come una foglia d’ortica risuonava tempestosa
nelle menti corrotte e delinquenti come un allarme, qualcosa di tremendamente
fastidioso. Le sue inchieste sulla criminalità organizzata forti della loro intuizione
sociale andavano oltre i “fattacci” di Torre Annunziata ed erano un monito nei
confronti dell’intera classe dirigente campana. Qualcuno l’aveva già intuito, e
gli articoli di Giancarlo divennero, anche se per pochi mesi, quelli più
attesi, con fervore letti e con rabbia capiti. Nulla di nuovo e tanto di vero.
Politica e criminalità erano argomenti chiave del suo interesse. Qualcuno lo
intravede nella stessa sagoma del compianto Lamberti, altri intercettano il suo
coraggio in quello di don Luigi Merolla. Avvertimenti, minacce, inviti a
restare “al proprio posto”: identici i fattori, stesse le paure. Giancarlo è
tra loro, vive nella loro resistenza. Perché persone così “al loro posto” ci
stanno scomode: troppo stretta è quella sedia che impone di parlare d’altro, di
affrontare altri problemi, di chiudere gli occhi davanti alla tracotanza che
impone la propria prepotenza. Qualcuno scambia il nome di Giancarlo con quello
del comico Alessandro, qualcun altro non sa neppure che sia esistito. Ieri sera
è andato in onda sulle reti Rai il film-documentario “Fortapàsc” di Marco Risi,
essenziale riferimento, formidabile rivisitazione che si aggiunge a quelle di
Gianfranco De Rosa, che nel 1999 realizzava “Mehari” dal nome della sua curiosa
Citroen e di Maurizio Fiume che nel 2004 lo ricordava con “E io ti seguo”. Ricordo
a tal proposito uno spezzone del film di Risi, in cui l’ottimo Libero De
Rienzo, che nel film è Giancarlo, viene invitato dal suo superiore a limitarsi
a fare il “giornalista-impiegato” e
non il “giornalista-giornalista”,
scelta quest’ultima che conviene evitare per non mettere a repentaglio la
propria tranquillità . Ovviamente sappiamo tutti Giancarlo che strada ha preso,
nella vita e nel film. Ora più che mai abbiamo bisogno di questi esempi,
dell’immenso valore etico che possono lasciarci. Premi giornalistici in suo
nome, film e cerimonie di commemorazione non basteranno forse a colmare il
vuoto che ha lasciato nel giornalismo di cronaca nera, ma aiutano ravvivare nel
nostro animo il suo. Non si limitava a raccontare i fatti, li analizzava,
cercava di capirne l’essenza e prevedeva quelli futuri. Una prova? Forse la sua
morte. L’abbiamo vissuto per troppo poco tempo, sarebbe servito di più, e non
solo alla sua testata. Il suo giornalismo è durato poco: una parentesi che francamente
avremmo voluto fosse più ampia. Giancarlo dava fastidio, non solo ai Nuvoletta
o ai Gionta. Il suo era un lavoro giornalistico costante che mirava ad aprire
gli occhi soprattutto nei confronti della “politichetta” locale, quella che
forse era la più vicina ai clan, e non solo a Torre Annunziata. Ci sono voluti
ben 12 anni e 3 collaboratori di giustizia per beccare i suoi assassini, e
forse è proprio questo che fa ancora più male. A ventisei anni dalla sua morte
(come ventisei erano i suoi), a lui, il mio, il nostro saluto. Perché oggi,
specialmente in questa città, chi vuole fare giornalismo, o almeno ci prova,
non può non guardare a lui come un esempio. Almeno per un attimo, per un
articolo, anche quando non ci si occupa esclusivamente di camorra o di
sparatorie, Giancarlo può essere utile. La sua morte non deve essere stata cosa
vana. Del resto, se ha scelto di non essere un “giornalista-impiegato”, lo ha
fatto per il bene della sua città e della sua gente, oltre che per la nobile
considerazione che aveva del proprio lavoro. Giornalismo per lui consisteva
nell’arte di informare senza filtri né minacce. Insomma, uno come pochi. Uno
che ha vissuto sempre con coraggio, anche quando aveva paura.
Articolo riadattato, pubblicato integralmente su
Spazio Culturale due anni fa.
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