La mistica e l’anima del maestro: Eckhart tra filosofia e religione
“Nessuno conosce Dio
se prima non conosce se stesso”
Meister Eckhart, Haec est vita, ut cognoscat te
solum
Mentre a Firenze un guelfo nero muoveva i suoi primi passi
nell’intrecciata questione linguistica del vulgo,
che avrebbe, per sempre e per suo merito, dato un volto nuovo alla nostra
letteratura, aldilà del Reno cresceva e filosofava Maestro Eckhart, al secolo Eckhart
von Hochheim, uno dei più imponenti mistici della cristianità, in particolare
di quella medievale, in cui, spesse volte, affermare con audace fermezza la
propria dottrina equivaleva a scontrarsi con la ferrea autorità ecclesiastica. Il
domenicano nacque probabilmente nel 1260, ed a pochi anni entrò nell’ordine dei
predicatori ad Erfurt, in Turingia, dove successivamente sarà nominato priore
per poi diventare Provinciale di Sassonia. Occupò a Parigi la stessa cattedra
di teologia che circa trent’anni prima aveva ricoperto Tommaso d’Aquino, ma
precedentemente si addottorò a Colonia nello Studio Generale ove aveva tenuto
scuola il grande Alberto Magno. Scrisse in tedesco ed in latino, anche se, in
realtà, non esiste di “maestro” Eckhart, un manoscritto originale: possediamo
solo una sua lettera risalente a quand’era provinciale[1]. Apprese in poco tempo e
con magistrale diligenza, i canoni della filosofia naturale e si introdusse nei
meandri della teologia ascetica e mistica: lungo il suo pensiero non si può
distinguere mistica da filosofia, come se si trattasse di attività divergenti,
nella loro profonda realtà si tratta dello stesso rivolgersi dell’intelligenza
verso la verità, l’Assoluto, l’Uno[2]. L’insegnamento eckhartiano
fondava le sue basi sulla teoria del distacco, sul primato dell’intelligenza,
sull’eliminazione dell’ego: nel pensiero cristiano medievale Eckhart si colloca
con visioni nuove e rivoluzionarie. Al suo tempo, il dibattito sulla Chiesa era
superato: si trattava di sapere in che misura l’anima fosse capace di
raggiungere l’essenza divina. Il dotto domenicano non cadde mai nel panteismo,
ma insegnava che l’uomo, aiutato dallo spirito santo e rinunciando a sé stesso,
avrebbe potuto raggiungere uno stato che l’avrebbe condotto all’immagine divina[3]. Qualcosa, però, che
avrebbe separato, al bivio della coscienza inquisitoria, la sua strada da
quella del Dottore Angelico aquinate e del Magno Alberto, era già nell’aria: il
prodigioso teologo e filosofo domenicano, infatti, fu denunciato, nel 1325,
all’arcivescovo di Colonia per affermazioni eretiche dai suoi confratelli e un
anno dopo iniziò il processo inquisitorio. Da quel momento, Eckhart non si
scrollerà più di dosso l’etichetta di eretico che gli era stata appena
consegnata. Ma quale concetto o teoria in particolare, aveva fatto di Meister
Eckhart, un pensatore “ribelle”? Per la Chiesa, quello era senz’altro un
momento delicato e dilaniato da una fastidiosa provvisorietà: il trasferimento
del papato ad Avignone ed il recente rogo dei Templari a Parigi, ne sono una
lampante riprova. Eckhart affrontò con vena “temeraria”, come ebbe a dire papa Giovanni XXII[4]
dopo aver esaminato le proposizioni contestate e supposte eretiche, la dottrina
teologica: il suo concetto di Dio, il Suo rapporto con l’Anima ed alcune sue
proposizioni mistiche, calarono i sospetti sulla sua filosofia e 28 sue
imputazioni, definite eretiche, passano al vaglio della decisione papale. Senza dubbio, poi, quando si affrontano tesi
mistiche, come era successo ad Eckhart, ampio spazio è riservato
all’interpretazione: si entra in un concetto che spazza via dogmatica e
ortodossia, lasciando il campo all’indecifrabilità, al rapporto personale tra
il credente ed il suo Dio. Nel 1329, con la Bolla In agro dominico, in cui asserisce anche che Eckhart sia morto, il Pontefice definisce eretiche 17 sue
definizioni, assolvendone le restanti 11: è indubbio che la morte impedì al
maestro di difendersi, anche se durante le prime accuse, il domenicano difese a
più riprese il suo pensiero, tendendo a giustificare alcuni suoi passi, quasi
come se fossero stati oggetto di scarsa comprensione; anzi, una volta, si
mostrò pubblicamente disposto a ritrattarle, se esse fossero state considerate
eretiche, con una dichiarazione letta in latino da un confratello. I Sermoni,
restano la sua opera più conosciuta e godranno di una vasta eco specialmente durante
il romanticismo tedesco dopo secoli di buio e di silenzi, nonostante in quegli
anni il pensiero eckhartiano si sia comunque trasmesso sottobanco. La condanna
avignonese, infatti, non calerà il sipario sulla filosofia del Maestro
domenicano: a lui saranno legati, in parte, i grandi filosofi idealisti
d’oltralpe, da Fichte a Hegel, passando per Shelling oltre ai tanti mistici
tedeschi tesi alla rinascita della filosofia religiosa.
[1] Marco
Vannini, Introduzione ai Sermoni
di Eckhart, Milano, Paoline, 2002
[2] Ibidem
[3] Bernard
Guillemain, da I grandi problemi della
Chiesa, ne Il Papato ad Avignone,
Storia
della Chiesa vol.XI, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1994
[4] Giovanni XXII: Jacques
Duèze fu il 196º Papa della Chiesa cattolica dal 7 agosto 1316 alla morte
nel 1334 ad Avignone. Dante lo cita, senza nominarlo, due volte nel XVII° e XVIII°
canto del Paradiso, con astio e con tono critico alludendo alle sue scomuniche.
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