Quanto scotta quella sabbia nel deserto | Parafrasi di una crisi

Analizzare la delicata questione mediorientale con puntualità e con un pizzico di lungimiranza risulta oggi assai più difficile di quanto in passato non lo sia stato. Tutto, o quasi, pare assumere gli stessi effetti di una partita a carambola, dove la scongiurata e temuta caduta dell’otto nero è senz'altro rappresentata, in questo caso, dal pericolo di guerre civili, o peggio ancora, da conflitti bellici trasversali. Se proviamo a fare dietrologia, la caduta di Saddam Hussein e quella successiva del regime libico di Gheddafi, hanno dato il via ad un effetto domino pieno zeppo di instabilità mista a pressioni di lieve e più pesante entità da parte di una società civile che si è mostrata, a più riprese, messa al palo da una socialità vecchia e retroattiva, mentre sull'altra sponda del Mediterraneo tutto verte verso spiccate forme di laicismo ed emancipazione sociale che infittiscono ancor di più la distanza tra due mondi che geograficamente vicini, si ritrovano, nella sostanza, ad anni luce di differenze sociali. Questo sembra essere il motivo, anche se sostanzialmente non è l’unico, della rivolta dei tamarod egiziani contro governo di Mohammed Morsi, capitolato come sappiamo, un po’ come era stato messo alla berlina quello del faraone Mubarak. Morsi, che pure aveva vinto con le inedite votazioni democratiche, non ha saputo rappresentare tutta la sua cittadinanza, e non perché il compito fosse arduo (anche se in realtà lo è), ma principalmente perché il più grande e popolato paese mediorientale, si è improvvisamente opposto ad un modo di governare retrogrado, fumoso ed inoperoso di fronte al crollo economico globale. Ma qualcosa in quella rivolta è andato storto, seppure i ribelli appoggiati dall'esercito abbiano inizialmente dato vita ad un golpe in grado di indirizzare il paese delle piramidi verso una forma governativa più giusta. Ora l’Egitto sembra lontano dalla stabilità, ancora meno dalla pacificazione delle fazioni interne: l’unico risultato del caos, sono le tante vittime ed il crollo del turismo, principale fonte di entrate per il governo de Il Cairo. Sintatticamente, “Morsi” è un tempo al passato, un po’ come l’Islam al potere. In Siria, invece, la situazione che è comunque delicata, è un tantino diversa ma non meno complessa. Il regime di Assad si impone in un paese a forte matrice islamica già con una premessa non marginale: il dittatore Siriano è un alawita, la Siria è fortemente sunnita. Aldilà delle divergenze religiose, che sono pur sempre correnti di una stessa matrice, Assad non si è di certo fatto notare per le sue doti diplomatiche: all'alba dell’intervento statunitense in Iraq, sostenne Saddam mentre i suoi rapporti poco chiari con il Libano fecero si che si sollevasse la richiesta di allontanare le forze armate siriane dal territorio di Beirut. Anche se la sua tendenza sciita è malvista dalla maggior parte degli islamici, in politica estera è nota la sua avversione alla vicina Israele, tanto che si ritiene sia molto vicino al gruppo palestinese di Hamas. Nel 2011, i primi segni dell’instabilità: manifestazioni, proteste e scontri contro il regime fanno registrare oltre 1.000 vittime, anche se con gli anni il numero dei morti si è moltiplicato. La Siria non è un paese ricco né di giacimenti, né di materie prime: eppure c’è qualcosa che spaventa più delle armi chimiche, specie gli States. La sua influenza in Medio Oriente, come detto, è più che nota; la vicinanza con l’Iran, inoltre, non è meramente geografica. Nel suo discorso alla nazione, Obama ha affermato: «Nella guerra civile in Siria sono già morte 100 mila persone ma la situazione è mutata profondamente quando il governo di Assad ha ucciso con i gas oltre 1000 persone, inclusi centinaia di bambini, mostrando al mondo i terribili dettagli delle armi chimiche». In effetti, dopo lo scetticismo dell’Onu, il no incassato da Cameron dai lords inglesi, i forti moniti di Papa Francesco, il gelo di Putin e di Pechino ed i 6 americani su 10 contrari all'intervento militare, Obama pare volersi giustificare del progetto, sempre più isolato, del suo intervento. Citando Roosevelt, nel finale del suo discorso, Obama ha rincarato la dose dichiarandosi contro la guerra, ma di voler comunque dimostrare che l’America sente la responsabilità di agire contro il tiranno di Damasco. Tutto giusto, peccato però che con un intervento massiccio, il numero delle vittime civili potrebbe crescere a dismisura, e probabilmente la soluzione per la pace in Siria non sarebbe manco così scontata: l’Iraq e l’Afghanistan insegnano. Premesso che non ci sono dittatori e despoti giusti e da difendere, l’occidente deve, piuttosto, comportarsi, se è necessario, da guida verso la democrazia, con il Medio Oriente con politiche nuove, avanzando proposte e non pretese, risoluzioni che coinvolgano direttamente i popoli e non invadendoli come il nemico che avanza. I civili mediorientali che lottano per la propria libertà, in Egitto così come in Siria, hanno bisogno di noi, non dei nostri cannoni.

Pubblicato su Spazio Culturale di Luglio/Settembre

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