Figli di Trojan. Breve storia di carnefici e vittime.

È singolare partecipare allo spettacolo del carnefice che diventa vittima di se stesso. È imbarazzante sapere che in gioco c’è la credibilità del CSM. Le intercettazioni che oggi inchiodano Palamara al crocifisso delle proprie responsabilità, sono le stesse di chi, qualche anno fa, ne denunciava la limitazione delle libertà personali e costituzionali. Non è il caso di entrare nei particolari delle telefonate incriminate: resta però da chiedersi - sperando che anche lui ora venga processato come tutti i cittadini che in questi anni sono stati sottoposti a processi mediatici, prima che giudiziari - se sia il caso o meno di fare un passo indietro sulla legge sulle intercettazioni. 

L’ultimo dl dello scorso febbraio ha, difatti, ulteriormente allargato la possibilità di utilizzare i captatori informatici. Nello specifico, ha esteso i casi in cui è possibile usarli: non solo più per i reati contro la pubblica amministrazione commessi dai pubblici ufficiali, ma anche dagli incaricati di pubblico servizio. Insomma, siamo tutti figli di Trojan, un Dio minore che limita le nostre libertà, finanche nella privata dimora, se il pm lo ritiene necessario. Ed il concetto di “necessarietà” per le procure, si sa, ha un risvolto molto, ma molto, relativo. 

Si è assistito, negli ultimi anni, ad una parabola discendente del diritto di privacy del cittadino in nome di un dovere di giustizialismo esasperato, che, tradotto in termini politici, si concretizza, a puntate, nel giubilo festoso e trionfante del guardasigilli Bonafede: quello del “se c’è un sospetto, ti dimetti” di qualche anno fa, quello che, con un triplo carpiato, si è giustificato di un provvedimento legittimo (le recenti scarcerazioni durante il lockdown), disposto dalle uniche persone legittimate a farlo, i giudici di sorveglianza”; quello che con un atto poliziesco alla sudamericana maniera, ha sbilanciato completamente la separazione dei ruoli, a discapito del potere esecutivo della politica ed a vantaggio dei pubblici ministeri. Ancora una volta, in barba alla Costituzione, quel vecchio arnese ormai cartastraccia. Insomma, quello li. 

E così, tra una telefonata di Di Matteo che lo ha sfiduciato in diretta Tv spettacolarizzando e ridicolizzando questioni delicate e non deputate ai talk show (come se al capo del DAP - ruolo prettamente amministrativo - fosse obbligatorio nominare un Pm antimafia), ed i sermoni in salsa voyeuristici di D’Avigo, in nuovo spolvero ma sempre paradossale nelle sue uscite (tipo quella sulla prescrizione versus Caiazza che cercava di spiegagli concetti veramente elementari, pur senza riuscirci), c’è il tempo anche di riflessioni intelligenti da cui prendere spunto. In una recente intervista di Annalisa Chirico su Il Foglio, Giovanni Maria Flick, già ministro della Giustizia dell’esecutivo Prodi e presidente della consulta, riguardo la questione di Palamara, con il quale è iniziata questa riflessione, è stato chiaro: “vent’anni or sono, mi sono occupato di tipizzare le forme di illecito disciplinare, di cercare di distinguerle dall’illecito penale e da quello deontologico, e di chiudere le porte girevoli tra politica e giustizia. Una volta il magistrato era espressione di una cultura, adesso vediamo esempi clamorosi di persone che, pur in assenza di requisiti minimi, superano il vaglio del controllo”.
E sul ricorso alle misure alternative: “Oggi usiamo il carcere non più come extrema ratio ma come l’olio di ricino, come strumento primario di controllo sociale, come palliativo e tranquillante contro la paura sociale; si pensi alla definizione del cd “spazzacorrotti”: ai condannati per determinati reati contro la pubblica amministrazione che non collaborano viene inibito retroattivamente il ricordo alle misure alternative”. Una follia. Sperando che Palamara non resti impigliato nella rete che quella stessa magistratura ha tessuto.

Commenti