La Striscia di Gaza, frontiera di missili e di speranza
Mi
son sempre chiesto, tra un po’ più di serio che di faceto, se un giorno
Palestina ed Israele riusciranno mai a vivere in pace e non da “separati in
casa”. Le notizie che quotidianamente giungono dalla striscia di Gaza, che ho
sempre immaginato come un nuovo muro di Berlino costruito più con sacchetti di
imposizione e pregiudizi che di calcestruzzo, non sono confortanti ma,aihmé,
neppure tanto inattese. Tralasciando gli aspetti storiografici e cronologici di questa perenne e secolare ostilità,
che sono noti ai più, è mio desiderio focalizzare la
questione su alcuni aspetti di riflessione,
che forse sono più utili delle date e dei
filmati video di centinaia di tele e radiogiornali. Premettendo che l’ANP, l’organismo governativo dello Stato della Palestina, ha riconosciuto la legittimità di Israele, l’unico stato, tra quelli
mediorientali e quindi arabi, che guarda ad
Israele con minor sospetto è proprio quell’Egitto,
di cui parlammo su Spazio Culturale proprio un
anno esatto fa: un paese dilaniato da una lotta intestina
tra musulmani e ribelli, che causò numerosissime morti pur senza gettare acqua
sul fuoco della tensione. Israele è un satellite ebraico, tra pianeti arabi. È uno
Stato nato dopo un conflitto mondiale, al
tavolo di lunghe trattative tra un brandy americano ed una Benson londinese, quasi come se si
trattasse di un trasloco da effettuare in un nuovo monolocale dopo un
fastidiosissimo sfratto, un’impellenza da risolvere per lavarsi la faccia dalla
polvere da sparo e dall’imbarazzo. Una capitale, Gerusalemme, che i palestinesi
rivendicano e che taluni ebrei fanno persino fatica ad accettare come propria.
Bibì, al secolo Benjamin Netanyahu, ne è l’attuale primo ministro ed ha
studiato e lavorato negli Stati Uniti, di cui è un fedele estimatore. Sono
passati 10 anni dalla fine della seconda Intifada, la ribellione palestinese
all’occupazione territoriale ebraica, ma qualcosa di tremendo lascia presagire
un ritorno alle armi e purtroppo a nuovi spargimenti di sangue. Proprio l’Egitto,
il 15 luglio scorso, propose al governo di Gerusalemme una tregua, non
accettata però da Hamas, che non ha mai interrotto il lancio dei razzi sullo
Stato ebraico. Ma prima bisognerebbe capire il perché di questa nuova scintilla
di tensione. Cominciamo dal 23 aprile scorso, quando Hamas e Fatah, i due
principali partiti palestinesi, si riuniscono dopo
anni di conflitti trasversali. Israele non ci sta, perché
considera (e non è la sola) Hamas un’organizzazione terroristica
e teme, dunque, ripercussioni violente. Il 6
giugno, sotto l’invito del Santo Padre Francesco, il presidente israeliano Simon Peres ed il leader palestinese Abu Mazen pregano insieme, a Roma, per la pace. Il 12
giugno cambia tutto: tre ragazzi israeliani
vengono rapiti in una colonia israeliana
vicino Hebron e successivamente, barbaramente uccisi.
Neyanyahu non ci mette molto ad accusare Hamas dell’efferato delitto: «Hamas è responsabile, Hamas pagherà» disse,
riunendo il gabinetto israeliano e lanciando un’operazione che portò all’arresto di oltre 300 persone sospettate di
essere vicine all’organizzazione terroristica.
Da quel momento, e siamo al 30 giugno,
iniziano le
ostilità: dopo pochi giorni il corpo di un ragazzo palestinese viene trovato
carbonizzato a pochi passi da Gerusalemme. Da quel momento inizia l’escalation della violenza, la Striscia di Gaza
diviene teatro di distruzione e violenza: le vittime crescono a dismisura, giorno per giorno. Hamas si è sempre ritenuta
estranea sia all’uccisione dei tre ragazzini israeliani che del lancio di una decina di missili nella notte tra il 30 giugno ed
il 1 luglio. Forse un giorno, ritornando alla mia riflessione tra il serio ed il faceto, non
sentiremo più
parlare di antisionismo, di intifada, di accuse, di occupazioni territoriali.
Forse quel giorno in cui il mondo arabo e quello ebraico riusciranno a convivere senza
gettare l’occhio
sulla dietrologia dell’odio e del rancore politico e religioso, non è troppo
lontano.
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