...con gli occhi del Maestro | L'intervista a Roberto De Simone
Il prossimo 25 agosto compirà ottant’anni, ma in tutta franchezza, Roberto De Simone, pare sia nato da sempre. La sua casa è un museo di storia, lui la guida d’eccezione. Ci accoglie col sorriso, e col sorriso ci accompagnerà alla porta:resto più ammaliato, però, in quell’ora di parole su parole, dai suoi occhi vissuti, compenetranti e fieri, dalla sapienza che sprigionano, che dei suoi mille vocaboli pronunciati senza filtri né esitazione con una lucidità ed una correttezza imbarazzanti, da fare invidia anche ad un paroliere più che ventenne. Qui l’età c’entra poco: Roberto De Simone ha ancora tanto da dire,nonostante la stanchezza, nonostante i capelli color argento. Non serve annotare squarci biografici, tanto meno elencare il suo lungo curriculum vitae:per il maestro parla la storia. Potrei dire qualcosina su la Gatta Cenerentola ma risulterei superficiale, abbozzare un pensiero su La Cantata dei Pastori ma non basterebbe l’intero numero, definire cosa sia la Nuova Compagnia di Canto Popolare di cui lui fu assiduo animatore, ma a cosa servirebbe? Cadrei gratuitamente nel qualunquismo, e poi, per le opere del maestro non servono tante parole: basta fermarsi ad ascoltarle. Parliamo, in pratica,di tutto e De Simone sembra non voler smettere mai. Difatti, non ricordo per quale assurdo motivo ci ritroviamo, poi, a parlare persino di politica: “Ero un amico di Luciano Berio ed all’epoca parlavamo sui dissidi dell’intellettualismo dei musicisti del ’60 che agivano all’ombra delle sinistre, - dice con un pizzico di nostalgia il maestro – ma oggi la sinistra sembra adagiata su posizioni sessantottine e non più attuali”. Con lo stesso entusiasmo ci racconta anche del suo rapporto col Santuario di Madonna dell’Arco e di tantissime altre cose. Mi accorgo troppo tardi che le domande che gli ho preparato, tutto sommato, non servono a nulla e mi appaiono, anzi, ridicole,persino superflue: il Maestro ha già detto tutto, anche e soprattutto con gli occhi. Ma un’intervista che si rispetti è fatta, ahimè, per sua natura, di seppur formali domande, anche se è lui a condurmi tra i miei stessi quesiti. Parla con una tale velocità che faccio fatica persino a seguirlo con la penna, ma lui con fare affettuosamente paterno mi accenna timidamente un sorriso e talvolta si prende una pausa.
Maestro De Simone, nella sua lunga carriera qual’è la cosa che le è riuscita meglio? Non posso scegliere cosa è riuscito meglio: io sono sempre stato un compositore con un programma ed un disegno ben precisi.Ho sempre tenuto presente il dissidio che esiste tra la cultura scritta e orale ed ho cercato di porvi rimedio, anche contrariamente alle idee positivistiche che all’epoca determinavano l’idea di estetica: ma per me essa è un contraddittorio contro una società falsamente democratica. Ho seguito piuttosto la metastoria, sui forzieri che sono dentro di noi, nella memoria e nella parola, su cui non si è mai scritto. Penso alla Messa di Requiem che composi in memoria di Pier Paolo Pasolini, un grande uomo, che fu sempre vicino ai deboli ed agli emarginati.
C’è invece qualcosa che le manca o che vorrebbe ancora fare? Io mi affido sempre alla provvidenza del caso: siamo presuntuosi quando decidiamo quello che vogliamo fare nei prossimi giorni. Il caso mi ha sempre guidato per sentieri inimmaginabili. Io credo che siamo guidati per mano verso gli eventi. L’esperienza del vivere, del resto, è una forma che anche Cristo mette in evidenza. Meglio passare per il fuoco che per un comodo tiepido. No? (sorride).
Le sue collaborazioni con artisti e musicisti sono innumerevoli. Quale ricorda con più piacere? Ricordo in particolare quella con Irene Papas, una donna di grande sapienza interiore. La invitai a partecipare alla Lauda intorno allo Stabat Mater di Jacopone Da Todi che composi nella Chiesa di San Francesco di Paola e notai che durante le scene lei piangeva veramente. Ricordo che faceva da scenografia una grande croce lignea ed io le consigliai di togliersi le scarpe per rappresentare meglio il cammino di morte e di dolore: in realtà, nell’ opera, era previsto un grido di dolore esternato con l’esasperazione del pianto. Notai, che il pavimento di marmo della chiesa era gelato e quindi la invitai a rimettersi le scarpe: lei mi disse di no, che aveva cominciato scalza e doveva finire così. Questo significa essere veri attori.
Con quale musicista, che non ha conosciuto, invece avrebbe avuto il desiderio di lavorare? Questo è l’anno di Gesualdo di Venosa, grande compositore di madrigali e musica sacra. Purtroppo è conosciuto di più per aver acquistato la fama di assassino della moglie che per la maestosità delle sue opere. Io scrissi anche un’opera sui suoi madrigali, ma mi avrebbe fatto piacere conoscerlo anche per scoprire, come io credo (sorride), che non fu lui ad uccidere sua moglie. Mi avrebbe fatto piacere conoscere anche Mozart, Bartòk e Stravinskij. Dopo aver risposto a tutte le domande, il maestro ci conduce tra le stanze della sua casa. Strumenti musicali, mobili d’epoca, quadri maestosi, statue e raffigurazioni votive:casa De Simone è un itinerario che sorride all’arte. Ci mostra il catalogo delle immagini votive possedute che si sta dilettando a redigere, poi ci punta l’indice tra i libri dei suoi numerosi scaffali, segnalandoci quelli più antichi. Purtroppo la visita giunge a termine, anche se noi, con tutta onestà, non avremmo mai voluto terminasse così brevemente. Me la faccio bastare, e comprendo ora cosa in realtà significhi vivere la vita con gli occhi del Maestro.
Pubblicato su Spazio Culturale, aprile - giugno 2013
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