Io la pubblico, te che fai? Disquisizione patetica sulla condanna a Corona

Travolti dall’insurrezione popolare contro la condanna a Fabrizio Corona, ci tramutiamo da liberisti novecenteschi quali siamo a manettari del nuovo millennio, come ci vorrebbero. Non perché siamo allergici alla coronite, perché  piuttosto crediamo sia pericolosa.  Quando mostriamo la nostra criticità riguardo certe sentenze, risultiamo qualunquisti, persino sprovveduti. I ladri sono fuori e Corona marcirà dentro, più che una formula magica si traveste da resa. Con bandiera bianca annessa. Corona è un tipo simpatico, alla moda, e da quel che si evince, anche depresso. Ma basterà a snellire il peso specifico di un’estorsione? Il pesce puzza dalla testa (‘o pesce fete da capa), e dunque, più che sulla sentenza, sarebbe più opportuno dibattere sulla inquadratura esatta del reato in essere, sulla sua effettiva collocazione nella scala giudiziaria. Questione di feeling e di gravità. Può una foto giusta, se si interpellano i canoni dello spietato giornalismo gossipparo, ma scattata al momento sbagliato, essere ritenuta l’oggetto dell’estorsione: io la pubblico, te che fai? Un personaggio pubblico può sentirsi minacciato da una foto pubblica? Il problema diviene morale. Allora, è in questo caso che il qualunquismo popolare di cui sopra, diverrebbe opportuno, se non necessario: cosa hai da nascondere se il gossip per te è pane quotidiano. Io la pubblico, te che fai? Fai pure, mia moglie capirà. 

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